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Progresso, guerra fredda e vie nazionali al socialismo in Africa

il PCI e la Repubblica di Guinea (1958-1968)

Abstract

La prima ondata di decolonizzazioni avviata tra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ’60 scatenò entusiasmo in tutto il mondo, poiché la fine del sistema coloniale significava l’inizio di una nuova fase della storia dell’umanità. In Italia, il più grande partito comunista dell’Occidente, il Partito comunista italiano (PCI), a partire dalle tesi elaborate dal XX Congresso del PCUS nel 1956, cominciò a sviluppare una sua via originale verso il socialismo e il confronto con l’Africa che si rendeva indipendente – nella visione del PCI – fu fondamentale per elaborare la teoria di un mondo policentrico, dove i comunisti non erano più soli nella battaglia antimperialista. L’indipendenza della Guinea (1958), in particolare, fu il primo banco di prova delle relazioni africane dei comunisti italiani, che osservarono i tentativi di questa nuova repubblica di emanciparsi economicamente dagli ex-dominatori grazie all’aiuto dei paesi socialisti. I legami importanti con la Guinea furono oggetto di riflessioni teoriche e politiche all’interno del Partito comunista e avrebbero definito una linea d’azione verso il Sud del mondo e i futuri contatti con i movimenti dell’Africa australe. Questo articolo analizza la natura dei rapporti tra PCI e guineani e la loro evoluzione nel contesto globale della guerra fredda, tra visioni di progresso e di fallimento.

Résumé

La première vague de décolonisations commencée entre la fin des années 50 et le début des années 60 avait enthousiasmé tout le monde, car la fin du système colonial signifiait le début d’une phase nouvelle de l’histoire humaine. En Italie, le parti communiste le plus grand d’Occident, le Parti communiste italien (PCI), était en train de développer sa voie italienne pour le socialisme à partir de thèses discutées au XXe Congrès du PCUS (1956) ; en même temps, l’Afrique qui luttait pour l’indépendance – dans la vision du PCI – représentait un terrain de confrontation fondamentale pour imaginer une théorie socialiste originelle. Selon cette perspective, le monde était devenu polycentrique et les communistes n’étaient plus isolés dans leur bataille contre l’impérialisme. L’indépendance de la Guinée (1958), en particulier, représentait le premier contact important des communistes italiens en Afrique. Ils observaient les tentatives de cette nouvelle république pour s’émanciper économiquement grâce à l’aide des pays socialistes. Les liens du PCI avec la Guinée ont été l’objet de réflexions théoriques et politiques à l’intérieur de ce parti et ils ont défini une ligne d’action vers le Sud global et aussi les contacts futurs avec les mouvements de libération de l’Afrique australe. Cet article examine la nature des rapports du PCI avec les Guinéens et leur évolution dans le contexte global de la guerre froide, en analysant des visions à l’égard du model de progrès de la Guinée et de l’échec de ce dernier.

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Il ruolo internazionale del PCI nel dibattito storiografico

L’importanza fondamentale assunta dal Partito comunista italiano (PCI) nella storia della Repubblica e in quella mondiale è stata più volte al centro di numerose ricerche, individuando i nessi tra politica interna ed estera del PCI, i mutamenti nella strategia di lotta del movimento operaio e contadino italiano nel complesso delle dinamiche transnazionali e lo scambio d’influenze ideologiche e culturali tra questa grande formazione e la società italiana ed europea. Le differenti analisi storiografiche e i diversi risultati raggiunti dalla ricerca hanno mostrato quanto sia stato fondamentale ricostruire la storia del PCI per fissare lo studio di un presente segnato da molte controversie e poche certezze. Il quadro storiografico, però, è stato dominato da correnti sorte dalle tensioni ideologiche della guerra fredda, che non sempre hanno aiutato una ricostruzione storica attendibile.

Il dibattito si è animato soprattutto in merito al paradigma della via italiana al socialismo, avviata dal segretario Palmiro Togliatti nel 1956 all’VIII Congresso del PCI, dopo il riconoscimento di Chruščëv alle vie nazionali. Il policentrismo togliattiano è stato oggetto di discussione tra gli storici, interessati alla sua eterodossia nel panorama del movimento comunista e alla supposta volontà italiana di slegare il proprio destino da quello dell’URSS, che non avrebbe più rappresentato l’unica guida del socialismo globale 1 . La visione di un partito proiettato verso una propria autonomia è stata da molti individuata in un processo di elaborazione precedente alla caduta del fascismo, che sottolineava l’originalità del progetto politico togliattiano connettendola alla particolare esperienza resistenziale dei comunisti in Italia 2 . Silvio Pons, partendo dalla categoria di doppia lealtà pensata da Franco De Felice, ha fatto notare come questa «tesi dell’autonomia» abbia dimenticato i fattori internazionali e abbia escluso il ruolo dell’URSS dalla propria ricostruzione storica, non mettendo in luce il legame che univa il PCI ai sovietici non solo nel periodo bellico e pre-bellico, ma anche negli anni cruciali della guerra fredda e in quelli della distensione. Egli non escluse certamente un’originalità della politica togliattiana e dei suoi successori alla guida del partito, ma la mise in relazione con una serie di dinamiche che hanno portato all’unicità dei comunisti italiani nel mondo socialista senza mai rinnegare completamente – seppur criticandola – la guida di Mosca. Allo stesso tempo, Pons si è distanziato dalla storiografia che vedeva nel PCI «il braccio operativo di un preciso disegno politico». Questa corrente, definita «tesi dell’eterodirezione», era frutto di una polemica sviluppatasi all’ombra della guerra fredda e non teneva conto della doppia lealtà, non riconoscendo un ruolo nazionale ai comunisti italiani 3 . L’apertura togliattiana al terzo mondo come campo di espansione del comunismo globale, come ribadito anche da Franco De Felice, fu effettivamente una difesa degli interessi del campo socialista, ma la sua attuazione fu comunque il frutto di un’elaborazione autonoma, una timida presa di distanza dal modello sovietico. Il policentrismo, in questa strategia, fu un allontanamento del centro gravitazionale del bipolarismo dal continente europeo, allargando «l’angusto scenario della guerra fredda» e orientandolo verso una distensione internazionale che avrebbe democratizzato anche il panorama italiano. In questo caso, dunque, la doppia lealtà del Partito comunista era rivolta sia al sistema democratico italiano, sia al ruolo dell’Unione Sovietica come guida del socialismo, la cui centralità ideologica sarebbe diminuita progressivamente sino a dissolversi solo negli anni ’80 4 .

Proprio da questa interpretazione della “guerra fredda globale” e del ruolo internazionale del Partito comunista italiano si svilupperà questo saggio, mirato all’indagine sui rapporti tra i comunisti italiani e un particolare “angolo” di terzo mondo, la Repubblica di Guinea. Pur nella sua dimensione ridotta, questo paese ebbe una fondamentale importanza per lo sviluppo dell’ideologia “terzomondista” e delle dinamiche della guerra fredda non solo nel continente africano, ma anche in Asia e in America latina. In particolare, l’intento sarà quello di fornire un’interpretazione sulla visione del PCI riguardo al progresso ed allo sforzo modernizzatore attuato in Guinea dopo l’indipendenza dalla Francia, nel 1958, sottolineando i mutamenti dei processi ideologici e di analisi critica che attraversarono il partito italiano negli anni ’60. Per procedere in questa direzione, ci si avvarrà della documentazione del PCI, proveniente dalla Sezione esteri e dalla stampa di partito, tentando di delineare la visione dei comunisti italiani riguardo alle politiche di sviluppo da attuare in Africa e l’incidenza delle dinamiche transnazionali in Guinea, nel terzo mondo e in Italia.

L’impostazione storiografica alla quale si vuole fare riferimento è quella che si radica nel dibattito su Gramsci degli anni Settanta, in particolare agli storici che attraverso di esso sono giunti a una rivisitazione degli approcci marxisti nei quali era predominante una cifra economicistica e un netto primato delle strutture sulle sovrastrutture. Questi orientamenti hanno mirato al recupero di una specificità del comunismo italiano e – soprattutto – a una revisione del concetto di progresso, inteso come rovesciamento dialettico dell’arretratezza e non più solo come sua mera distruzione: basti pensare al percorso storiografico del già citato Franco De Felice, dalla sua lettura critica dell’operaismo alla messa a punto del cosiddetto nesso nazionale/internazionale. Questa nuova nozione di progresso avrebbe alimentato un’idea «processuale» del cammino rivoluzionario 5 . S’intende, dunque, una rilettura dell’approccio materialistico alla storia – tipico del marxismo-leninismo – che vede nella rivoluzione e nell’annientamento del sistema capitalista l’unico modo per giungere al fine ultimo del socialismo: al contrario, la visione “defeliciana” si apre a una rivoluzione progressiva, che passa gradualmente dall’arretratezza alla modernizzazione e da questa alla società socialista. Proprio partendo da tali temi, questa storiografia ha indirettamente fornito gli strumenti per una lettura originale e politica del legame tra comunisti italiani e una particolare idea di Africa. L’immagine di un continente intero che reclamava il proprio posto nel panorama globale avrebbe stimolato l’idea che la via verso il progresso sociale potesse essere percorsa grazie a una politica di massa, pacifica e democratica.

La Guinea e la via di sviluppo non capitalista

La Guinea, colonia francese dell’Africa occidentale, conobbe una particolare esperienza politica che ne ha segnato i successivi sviluppi: il Partito democratico di Guinea (PDG).

Nato nel dopoguerra dall’unione dei quadri sindacali della Confédération générale du travail (CGT) africana con gli intellettuali comunisti dei GEC (Groupes d’études communistes) 6 , il PDG fu la sezione guineana del più grande partito interterritoriale delle colonie subsahariane francesi: il Rassemblement démocratique Africain (RDA). L’origine politica dell’organizzazione guineana fu quindi legata a doppio filo al Partito comunista francese, cui il RDA era apparentato all’Assemblea nazionale parigina a partire dalla sua nascita, nel 1946 7 .

Quando, nel 1951, si consumò il divorzio tra il gruppo dirigente del Rassemblement e il Parti communiste français (PCF), il PDG si oppose alla linea maggioritaria del partito e rimase legato a parole d’ordine di stampo marxista, pur non dichiarandosi mai comunista. La lotta che il Partito guineano condusse contro le gerarchie tradizionali dei capi villaggio, simbolo del potere coloniale sulle campagne, diede enorme popolarità al suo segretario, l’ex sindacalista Sékou Touré, fornendo una base di massa al partito anche nelle zone rurali della colonia 8 . Sfruttando le possibilità offerte dalla loi-cadre del 1956, che concedeva un’autonomia territoriale più ampia alle singole colonie, il PDG preparò il terreno per la sua ascesa. Pur condannando pubblicamente questa legge – che aveva scatenato forti proteste tra gli anticolonialisti, contrari alla balcanizzazione dei territori africani – Sékou Touré sfruttò abilmente i nuovi spazi di manovra a sua disposizione e nel 1958 maturò l’idea indipendentista che avrebbe portato il PDG a opporsi al referendum gollista per la creazione della V Repubblica francese e della Communauté française nell’Oltremare 9 . La grande forza di massa del PDG e il suo possente sforzo propagandistico portarono alla vittoria del “no” e all’indipendenza della nuova Repubblica di Guinea, ma scatenarono, al contempo, le ire dell’Eliseo. De Gaulle interruppe le relazioni franco-guineane e tutti i tecnici e i quadri coloniali francesi abbandonarono il paese in massa 10 . La Guinea, affamata dall’embargo gollista e impreparata nella gestione finanziaria e politica del paese, ripose le sue speranze nella cooperazione tecnica e finanziaria sovietica, pronta a supplire alle lacune lasciate dagli ex colonizzatori. Mosca, tra la fine degli anni ’50 e l’inizio del decennio successivo, optò per una via di sviluppo “non-capitalista” da esportare nei paesi resisi indipendenti nel terzo mondo, tentando di frenare il modello americano con una proposta di progresso socio-economico che potesse avere un’attrattiva per i nuovi governi delle ex colonie 11 . Secondo la teoria della competizione pacifica, infatti, il riconoscimento della sfera d’influenza dell’avversario si accompagnava alla ricerca di nuovi consensi nel terzo mondo, privilegiando un passaggio graduale al socialismo per le nuove repubbliche afroasiatiche e permettendo che la proposta politica di questi paesi si sviluppasse autonomamente, pur sotto l’egida dell’URSS 12 . Il Partito democratico della Guinea, che si era sempre ispirato all’ideologia socialista ma che ne aveva adattato il pensiero alla società africana, trovò una sponda naturale nella cooperazione sovietica. Come riportato da Alessandro Iandolo, che ha compiuto una ricerca riguardo all’aiuto di Mosca verso l’Africa occidentale, l’URSS riversò somme considerevoli nelle casse guineane a interessi ridottissimi e fornì una nutrita schiera di tecnici per la formazione dei quadri locali, per la modernizzazione dell’agricoltura e per la messa a punto di un settore industriale ancora inesistente 13 .

I primi contatti tra PCI e PDG

Fu in questo contesto che il Partito comunista italiano si interessò alla Guinea. Lo sviluppo della via italiana al socialismo ebbe un ruolo imprescindibile per l’avvio di uno stretto legame tra PDG e PCI. Il rapporto tra la via nazionale pensata da Togliatti e il terzo mondo assunse un significato fondamentale a partire dal XX Congresso del PCUS (Partito comunista dell’Unione Sovietica) e dall’VIII Congresso del Partito comunista italiano. Il segretario del PCI sostenne l’idea di un cambiamento strutturale del mondo, in cui l’Unione Sovietica avrebbe rotto il suo isolamento, le democrazie popolari si sarebbero rafforzate e le indipendenze nei paesi ex coloniali avrebbero favorito l’espansione del socialismo. La fine dell’unicità del modello sovietico e il policentrismo all’interno del mondo comunista, secondo Franco De Felice, non determinarono uno strappo tra Togliatti e l’URSS, poiché, per accelerare la crisi del capitalismo, rimaneva fondamentale il ruolo di Mosca: a mutare sarebbe stata una forma organizzativa che non si rispecchiava più nelle precedenti organizzazioni monolitiche come il Cominform. La politica togliattiana dell’unità nella diversità si proponeva di sfruttare la varietà delle molteplici forme di socialismo, nazionalismo e antimperialismo che si sarebbero affermate nei paesi di recente indipendenza, creando una formula di unità anticapitalista dalle diverse sfumature. Così facendo, la disintegrazione del capitalismo sarebbe stata causata da un’eterogenea coalizione a guida sovietica, la cui influenza non sarebbe più stata limitata dalle condizioni sociali e ambientali che avevano sempre caratterizzato il marxismo-leninismo classico. Per Togliatti, sfruttando la tendenza dei popoli del terzo mondo a «muoversi verso il socialismo senza una direzione politica comunista» si sarebbe realizzato «uno schieramento ampio, unitario ma estremamente articolato» che avrebbe favorito anche un’originalità delle singole esperienze. In questo contesto, il PCI avrebbe dato prova del proprio contributo per il progresso del movimento comunista internazionale, fornendo l’esempio della «giustezza ed efficacia delle posizioni reali e pratiche» conquistate dai comunisti italiani 14 . Dal momento in cui le indipendenze africane spalancarono al socialismo le porte di un terreno vergine, un campo aperto alle sperimentazioni, il PCI si pose come diretto interlocutore dei movimenti africani 15 : come affermò Marco Galeazzi, infatti, il Partito comunista italiano sviluppò la propensione a svolgere un ruolo egemonico nei confronti dei movimenti antimperialisti del sud del mondo 16 . La Guinea, che aveva conquistato la sua indipendenza senza spargimenti di sangue, utilizzando gli organi dello stato coloniale e avvicinandosi al mondo socialista, attirò ben presto gli sguardi di via delle Botteghe oscure, poiché rappresentava l’esempio di quel movimento democratico mondiale ricordato da Togliatti all’VIII Congresso del PCI.

Dante Cruicchi, giornalista de l’Unità, ex partigiano e dirigente comunista emiliano, nel 1960, si recò in Guinea in rappresentanza del Partito comunista italiano e del suo giornale, allacciando il primo di una serie di fruttuosi contatti con il PDG e con il presidente Ahmed Sékou Touré. Cruicchi fornì una sua visione riguardo alla modernizzazione del giovane paese africano, ricollegandosi alla linea politica del suo partito verso il terzo mondo. L’indipendenza della Guinea aveva portato un intero popolo a decidere del proprio destino, rappresentato nella sua totalità da un partito di massa come strumento di accesso diretto al potere. In una società come quella guineana, dove le differenze di classe non erano accentuate, il cammino verso il socialismo e verso la piena indipendenza economica passava obbligatoriamente per il partito-massa, il solo che avrebbe potuto guidare la popolazione verso il progresso sfruttando le circostanze ambientali specifiche del continente africano 17 . Il policentrismo togliattiano, infatti, distingueva diverse zone al cui interno si potevano determinare condizioni simili per lo sviluppo del socialismo. L’Africa e il mondo coloniale non permettevano un approccio classico del marxismo-leninismo a causa della mancanza di una classe operaia numericamente importante, rientrando, in tal modo, all’interno di un’area dove la validità delle strategie politiche dei partiti comunisti europei doveva essere ripensata, abbandonando l’operaismo e riconoscendo differenti metodi di lotta per evitare l’isolamento del movimento socialista 18 . Il Partito democratico della Guinea era riuscito a sfruttare le istituzioni coloniali per dare il via a un processo rivoluzionario permanente, in cui “rivoluzione” non era assimilabile al concetto di ribellione violenta, ma a un cambiamento qualitativo che poneva il rivoluzionario su di un livello più alto rispetto agli altri, passando da uno status inferiore a uno superiore 19 . Per ottenere questo risultato, come fece notare Velio Spano nel suo libro Risorgimento africano, Sékou Touré organizzò una serie di ramificazioni locali del PDG, con comitati di villaggio sparsi per tutto il territorio, che sarebbero poi serviti per l’organizzazione della società nazionale e per lo sviluppo del modello “non-capitalista” 20 .

Il progresso fu al centro dell’analisi politica del PCI verso l’Africa indipendente e la Repubblica di Guinea fu la prima vera protagonista della politica internazionale dei comunisti italiani verso i territori subsahariani. L’avvicinamento di questo paese al socialismo, reso possibile dalla cooperazione sovietica, avrebbe allargato la base di consenso dell’URSS e ne avrebbe anche difeso l’interesse nazionale, che per i partiti comunisti combaciava con quello del movimento operaio stesso. Pur nella sua innovazione, dunque, il processo delle “vie nazionali” immaginato dal segretario del PCI rimaneva funzionale alle necessità di Mosca, il cui ruolo non doveva uscire ridimensionato da questa strategia a lungo termine 21 .

Spano, senatore comunista, membro della Direzione e del Comitato centrale, si rivelò entusiasta della pianificazione economico-sociale di Sékou Touré e portò ad esempio la politica di massa del PDG sia nei suoi scritti che in seno agli stessi organi centrali del Partito 22 . Allo stesso modo, anche Dante Cruicchi, dopo il suo viaggio a Conakry della primavera del 1960, descrisse puntualmente la struttura produttiva guineana, informando la Direzione di via delle Botteghe oscure riguardo ai meccanismi che regolavano le cooperative agricole, le comunità di villaggio e le aziende di Stato 23 . Secondo Spano e Cruicchi, dunque, la pianificazione della produzione agricola e industriale grazie agli aiuti sovietici e la spinta verso il progresso del governo di Sékou Touré avrebbero portato la nazione guineana all’annullamento dei contrasti sociali. Nella visione anticoloniale europea tra XIX e XX secolo – di cui fu principale esponente Joseph Conrad 24 – i dominatori avevano turbato un equilibrio che era rimasto intatto per secoli, imponendo uno sviluppo tecnologico e importando il sistema capitalista e l’oppressione. Per i comunisti, gli stati progressisti africani come la Guinea furono la dimostrazione che la modernizzazione avrebbe potuto conciliarsi con la tradizione comunitaria locale e che avrebbe generato una società socialista dai caratteri originali. Il progresso non fu più sinonimo di sfruttamento imperialista alieno alla cultura africana, poiché uno Stato progressista si riconosceva in una tendenza modernizzatrice in funzione dei bisogni del popolo. La Guinea, agli occhi di Cruicchi e di Spano, combaciava perfettamente con questa descrizione.

Il PCI e la crisi del modello sovietico: Romano Ledda in Guinea

Romano Ledda, giornalista de l’Unità e di Rinascita, vicedirettore di Critica Marxista e dirigente molto attivo nella Sezione esteri, fu uno dei più appassionati narratori del continente africano. Fu il più assiduo delegato del PCI alla “corte” di Touré e divenne un attento osservatore dello sviluppo produttivo del paese. Già nel dicembre 1960, in un suo articolo pubblicato su l’Unità, pur nella convinzione che il sottosviluppo africano si potesse contrastare solo con radicali riforme agrarie, si disse convinto che la particolare situazione della Guinea non avrebbe potuto essere affrontata con semplicità, data la problematica persistenza di strutture feudali 25 .

A questo proposito, alcuni studiosi, basandosi su documenti sovietici o guineani, hanno evidenziato il fallimento del programma di sviluppo di Conakry dei primi anni ’60: la pianificazione economica guineana non diede i risultati sperati, sia a causa di diversi errori di valutazione dei sovietici, sia per la corruzione e la malversazione dei dirigenti guineani. I fondi e i prestiti elargiti da Mosca non raggiunsero quasi mai il loro obiettivo, finendo in progetti propagandistici inutili alla crescita produttiva del paese, mentre i tecnici sovietici riscontrarono grosse difficoltà nel loro lavoro di istruzione dei quadri locali, più interessati alla conquista di posizioni pubbliche privilegiate che all’effettivo lavoro da svolgere. Lo storico Alessandro Iandolo, servendosi di fonti sovietiche, ha riportato l’irritazione di Mosca per il fallimento di questa strategia ed è riuscito a dimostrare il legame tra il rallentamento degli aiuti dell’URSS alla Guinea e le tensioni che scossero i rapporti tra i due paesi tra il 1962 e il 1963 26 . Il cosiddetto “golpe degli insegnanti” nella capitale guineana, in cui l’ambasciatore sovietico Pavel Gerasimov fu accusato di aver appoggiato i docenti in sciopero contro Sékou Touré, minò profondamente il dialogo tra PDG e PCUS e fu il primo atto di una frattura tra sovietici e guineani che – pur con significativi ritorni di fiamma – fu difficilmente sanabile 27 . La Cina, invece, si fece trovare pronta a inserirsi nelle tensioni tra i due partner. Nel 1964, come riportato dall’agenzia stampa di Pechino Hsinua, Chou En Lai si recò in Guinea per instaurare rapporti con Sékou Touré. Acclamato da ali di folla festante, il primo ministro cinese fu portato in tour per tutto il paese dal presidente guineano, che s’impegnò a siglare diversi accordi con la Repubblica popolare 28 .

Fu ancora una volta Romano Ledda, durante un suo viaggio a Conakry nel 1964, a descrivere la situazione alla Direzione del PCI. Questi fece notare la stagnazione dell’economia guineana e il fallimento di una pianificazione economica che avrebbe dovuto portare al progresso della nazione e al riempimento delle lacune apertesi dopo la decolonizzazione. Ledda non attribuì errori solo alla classe dirigente guineana, che comunque si era fatta trovare impreparata alla sfida dello sviluppo post-indipendentista, ma anche ai sovietici, che non avevano saputo concentrarsi su obiettivi mirati e avevano fornito una pioggia di finanziamenti senza criteri e non ragionata. Tali errori di valutazione non poterono non pregiudicare i rapporti tra i due paesi, che si raffreddarono notevolmente 29 .

Nel 1967, dopo un nuovo soggiorno in Guinea, Ledda valutò come eccessivamente radicali le misure di statalizzazione attuate dal governo guineano dopo l’indipendenza, poiché ciò aveva portato l’economia alla stagnazione. Per porvi rimedio, era stato attuato il ristabilimento pieno del commercio privato, causando la creazione di classi medie mercantili privilegiate e abbandonando l’esperienza cooperativa per tornare, in molti casi, alle aziende agricole private. Questa soluzione, a dir poco criticata da Ledda, fu accompagnata dall’affievolirsi dell’aiuto economico dei paesi socialisti, con l’effetto di incoraggiare l’investimento dell’Occidente e della Cina nel paese. Nonostante ciò, Sékou Touré tenne a dimostrarsi distante dalle posizioni di Pechino, riconfermando la sua fiducia nella strategia della coesistenza pacifica 30 . Ledda, dunque, considerava necessario l’aiuto economico sovietico alla Guinea, ma gli errori compiuti da Mosca denotavano – ai suoi occhi – una mancata consapevolezza dei bisogni del mondo comunista: lasciati soli, i guineani avrebbero oscillato tra l’eccessivo statalismo e il suo esatto contrario, l’iniziativa privata incontrollata, per tentare di risolvere i problemi creati dal colonialismo. In questo modo non sarebbero riusciti a costruire una società socialista e a schierarsi realmente con l’URSS per rafforzare la lotta antimperialista.

Per ovviare ai problemi determinati dal ritorno dei privati nella produzione e nel commercio, lo stesso Touré aveva promulgato una legge quadro per colpire i privilegi nascenti e ristabilire il controllo dello Stato sulle attività produttive (1964); tuttavia, Ledda osservò la mancata applicazione di questa misura, affermando che «paesi come la Guinea […], che avevano sinora mantenuto posizioni avanzate, debbono fare passi indietro». Nella piccola repubblica africana, infatti, si registrava «la presenza […] di un ceto privilegiato “ricco”», pronto a investire nell’agricoltura «costituendo grandi piantagioni private», partecipando a «imprese commerciali di vario tipo, ed è apertamente ostile agli indirizzi generali della politica guineana». Romano Ledda avvertiva, però, che «il punto di resistenza ai processi involutivi della Guinea è attualmente dato da Sekù Touré, e non si deve sottovalutare l’importanza del leader in paesi come quelli africani, quando questi […] abbia un reale rapporto con le masse». Nei colloqui che aveva avuto con Ledda, infatti, il leader guineano si era dimostrato consapevole dei pericoli che il suo paese correva di allinearsi a posizioni neocoloniali, ma – era opinione del vicedirettore di Critica Marxista e di altri dirigenti dei paesi socialisti – si mostrò anche indeciso sul da farsi 31 . Sékou Touré, dunque, sembrava volersi barcamenare tra le diverse forze in campo, non sbilanciandosi mai a favore dell’una o dell’altra, per ricevere più benefici possibili da tutti i contendenti; così facendo, però, avrebbe aumentato il rischio di essere scalzato da un colpo di Stato, ingigantendo la sua paranoia contro gli oppositori politici e inasprendo le misure repressive 32 . Le conclusioni di Ledda sulla situazione guineana – e in generale su quella africana – combaciano con quelle riportate da Iandolo nella sua ricerca, notando un’involuzione nel cammino della Guinea verso il socialismo. Il passo indietro dell’URSS, causato dallo scacco guineano e dalla contemporanea sconfitta del fronte democratico in Congo (in cui fu mostrata al mondo l’inferiorità dell’apparato bellico sovietico), portò al cambiamento della strategia di Mosca in Africa, non più tesa alla coesistenza pacifica e a una via di sviluppo “non-capitalista”, ma al supporto militare ai movimenti filo-sovietici 33 . In questo senso, il ragionamento di Ledda, pur nella critica della strategia attuata dall’URSS in Guinea, era ancora legato al ruolo centrale del Cremlino come motore del socialismo e per questo motivo egli non poteva che giudicare negativamente l’allentamento delle relazioni tra Mosca e Conakry e l’intrusione occidentale in Africa. In un suo lungo articolo su Rinascita, nel settembre 1966, Ledda aveva già espresso questo suo punto di vista, denunciando la penetrazione occidentale, il legame mai morto con le ex metropoli e la fine della coesistenza pacifica, sepolta dalle tragedie di Congo e Vietnam. Pur riconoscendo alla Repubblica di Guinea un ruolo cardine nella difesa delle indipendenze dal neocolonialismo, Ledda manifestò le sue preoccupazioni e i suoi dubbi sulla tenuta dei paesi progressisti africani, assediati dalle grandi compagnie commerciali e incapaci di destrutturare realmente l’eredità del colonialismo. Rispetto alle affermazioni di Spano e Cruicchi, Ledda analizzò più approfonditamente le esperienze agrarie africane, concludendo che «trasformare una comunità di villaggio in una cooperativa è un’operazione solo nominale, se non si interviene in una radicale distruzione del sistema familiare tradizionale, e non si apre la via ad una profonda rivoluzione agraria». Solo questa strategia avrebbe permesso un successivo sviluppo industriale 34 . Questa stessa osservazione fu riportata da Ledda in una sua nota alla Segreteria del PCI, ma qui – a differenza che nell’articolo di Rinascita, destinato alla pubblicazione – egli si sbilanciò in severe critiche sul piano d’industrializzazione voluto da Mosca, non supportato da una produzione agricola efficiente, riportando, al contrario, come l’impegno cinese per la modernizzazione desse risultati notevoli 35 . È evidente, nell’articolo di Rinascita, l’assenza di qualunque accenno alla penetrazione cinese, oltre che alla scarsa lungimiranza sovietica: probabilmente si cercò di evitare di dare adito alle divisioni ideologiche nel campo socialista, nel nome della politica dell’unità nella diversità. Concetto, questo, ribadito in un altro articolo, questa volta scritto per Critica Marxista, in cui Ledda si disse convinto che questa frattura in seno al mondo comunista fosse la causa primaria dell’indebolimento dei paesi africani progressisti 36 .

A preoccupare maggiormente il dirigente del PCI, però, fu la questione dello scontro sociale in Guinea e la definizione di marxismo africano. Quest’ultima teoria, infatti, negava la divisione classista del popolo, che avrebbe dovuto accedere all’autodeterminazione nella sua totalità attraverso il partito 37 . Sékou Touré, in un testo pubblicato nel 1960 sempre su Critica Marxista, aveva confermato questo pensiero e l’interesse del PCI per la sua politica sembrava legato anche a queste sue convinzioni 38 . Sia Spano che Cruicchi – ma anche lo stesso Ledda – avevano apprezzato lo sforzo unitario nazionale per il progresso e per la cancellazione delle differenze di ceto che esistevano durante la colonizzazione; a distanza di sette anni, pur constatando l’oggettiva originalità delle società africane, Ledda condannò la negazione delle dinamiche classiste nel continente, attribuendole la causa delle debolezze dei governi progressisti. Secondo lui «il nazionalismo africano […] non ebbe una ideologia precisa, e quando la ebbe fu quella espressa da gruppi sociali e ceti che già si configuravano […] come giovani classi borghesi africane» con mire di ordine «neocoloniale» come lo stesso socialismo africano e «lo sviluppo indipendente delle scelte sociali» 39 . Lo stesso Sékou Touré, nell’incontro avuto con Ledda nel 1964, aveva corretto le sue precedenti convinzioni affermando che «i sovietici […] avallano l’equivoco “socialismo africano” che non esiste. Il socialismo è […] una scienza universale» 40 . Le conclusioni di Ledda, meno aperte alle sperimentazioni di quanto non lo fossero state quelle di Cruicchi o Spano, furono legate agli sviluppi di un contesto internazionale di rinnovate tensioni. La chiusura della stagione chrusceviana con il fallimento dell’appoggio sovietico ai nazionalismi, rivelatosi infruttuoso, spinse il mondo socialista a fermare le proprie aperture ai soggetti che non si dichiaravano apertamente marxisti-leninisti e questo – evidentemente – influenzò il giudizio dei dirigenti del PCI, un partito che si sentiva ancora legato all’Unione Sovietica, pur in una dimensione di relativa autonomia.

Un ponte verso l’Africa australe

Seppur nell’irrigidimento delle posizioni, i contatti tra PCI e PDG sarebbero continuati proficuamente, testimoniati dalla partecipazione di alti dirigenti dei due partiti ai rispettivi congressi (il ministro guineano Maka all’XI Congresso del PCI nel 1966 41 , Ugo Pecchioli – importante membro della Segreteria del PCI – a quello dei guineani l’anno successivo 42 ) e dal fitto scambio di corrispondenza 43 . Dalla fine degli anni ’60, però, la Guinea assunse un altro ruolo agli occhi del PCI: non più stretta alleata dell’URSS in Africa, ma perno della lotta anticoloniale nel continente. L’appoggio di Touré ai movimenti di guerriglia delle colonie portoghesi, la presenza dei dirigenti di queste formazioni a Conakry e l’organizzazione di eventi di solidarietà a loro favore da parte del PDG 44 , riportarono la piccola repubblica africana al centro dell’interesse del PCI e dei sovietici.

In conclusione, la concordanza con la politica sovietica in Africa espressa dai dirigenti italiani dimostra che l’attenzione del PCI per le vie nazionali nel terzo mondo, che tante critiche ha suscitato nel campo socialista, fu attuata con un occhio alle strategie di Mosca, anche se in relativa autonomia. Grazie al rinnovato avvicinamento del Cremlino a Conakry, infatti, i comunisti italiani conservarono un rapporto molto forte con la Guinea fino alla fine degli anni ’70, utilizzandola come base per sviluppare importanti legami con l’Africa australe 45 , dove avrebbero svolto un ruolo politico fondamentale e sarebbero divenuti gli interlocutori privilegiati dei movimenti di liberazione, rivelandosi una forza politica sempre più indipendente dalle strategie sovietiche a partire dal primo grande dissenso tra PCI e PCUS, in occasione della repressione della Primavera di Praga. Infine, la politica della segreteria Berlinguer (in carica dal 1972) avrebbe modificato la prospettiva africana del PCI, che divenne sostenitore del paradigma della contrapposizione tra nord-sud del mondo, integrandolo al bipolarismo est-ovest. L’accordo dei comunisti italiani alla cooperazione tra CEE e Africa, negli anni ’70, mirò alla composizione di un’Europa unita e solidale che si opponesse alla penetrazione USA nel terzo mondo, imponendosi come nuova forza mondiale capace di dialogare attivamente con le democrazie popolari, il cui legame con il PCI – benché indebolitosi sensibilmente – non si sarebbe sciolto fino agli anni ‘80 46 .



Notes    (↵ returns to text)
  1. Renzo Martinelli, Giovanni Gozzini, Storia del Partito comunista italiano, Torino, Einaudi, 1998, p. 574-637.
  2. Cfr. Paolo Spriano, Storia del Partito comunista italiano, v. 5, Torino, Einaudi, 1975; Adriano Guerra, Gli anni del Cominform, Milano, Mazzotta, 1977.
  3. Cfr. Sergio Bertelli, Il gruppo. La formazione del gruppo dirigente del PCI. 1936-1948, Milano, Rizzoli, 1980; Elena Aga-Rossi, Victor Zaslavsky, Togliatti e Stalin: il PCI e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca, Bologna, il Mulino, 1997.
  4. Silvio Pons, «Il PCI nel sistema internazionale della guerra fredda», Il PCI nell’Italia repubblicana, dir. Roberto Gualtieri, Roma, Carocci, 2001, p. 3-46; Franco De Felice, «La via italiana al socialismo», Franco De Felice. Il Presente come storia, dir. Gregorio Sorgonà e Ermanno Taviani, Roma, Carocci, 2016, p. 369-416.
  5. Cfr. Gregorio Sorgonà, «La proposta storiografica di Franco De Felice», Franco De Felice, cit, p. 46-49.
  6. Cfr. Jean Suret-Canale, Les groupes d’études communistes en Afrique noire, Paris, L’Harmattan, 1994.
  7. Giampaolo Calchi Novati, Le rivoluzioni nell’Africa nera, Milano, Dall’Oglio, 1967, p. 82-87.
  8. Cfr. Elizabeth Schmidt, Cold war and decolonization in Guinea (1946-58), Athens, Ohio UP, 2007; Ruth Morgenthau, Political parties in french-speaking West Africa, Oxford, Clarendon, 1964.
  9. Cfr. Odile Goerg, Céline Pauthier e Abdoulaye Diallo (dir.), Le NON de la Guinée (1958). Entre mythe, relecture historique et résonances contemporaines, Paris, L’Harmattan, 2010. Riguardo al ruolo della loi-cadre nell’ascesa politica di Sékou Touré, cfr. Frederick Cooper, Decolonization and African Society: the Labor Question in French and British Africa, Cambridge, Cambridge UP, 1996, p. 426-428.
  10. Giampaolo Calchi Novati, Pierluigi Valsecchi, Africa: la storia ritrovata, Roma, Carocci, 2005, p. 316.
  11. Cfr. Odd Arne Westad, The global cold war. Third world interventions and making of our times, New York, Cambridge UP, 2005; Michael Latham, «The cold war in the third world», The Cambridge history of the cold war, dir. Melvin Leffler e Odd Arne Westad, v. 2, New York, Cambridge UP, 2010, p. 258-280.
  12. Silvio Pons, La rivoluzione globale, Torino, Einaudi, 2012, p. 295-303.
  13. Alessandro Iandolo, «The rise and the fall of the ‘Soviet model of development’ in West Africa», Cold war history, 4, 2012, p. 683-704.
  14. Franco De Felice, op. cit.
  15. Cfr. Paolo Borruso, Il PCI e l’Africa indipendente, Firenze, Le Monnier, 2009.
  16. Marco Galeazzi, Il PCI e il movimento dei paesi non allineati (1955-1975), Milano, Franco Angeli, 2011, p. 219.
  17. Fondazione Gramsci (FG), Archivio del PCI (Apc), Mf 474, p. 1618-1625, 20/05/1960.
  18. Franco De Felice, op. cit.
  19. Jean Suret-Canale, «L’indépendance de la Guinée», L’Afrique noire française. L’heure des indépendances, dir. Charles Robert Ageron e Marc Michel, Paris, CNRS, 1992.
  20. Velio Spano, Risorgimento africano, Roma, Editori Riuniti, 1960, p. 195-207.
  21. Silvio Pons, «Il PCI nel sistema internazionale della guerra fredda», cit.
  22. Velio Spano, op. cit. Intervento di Spano al Comitato centrale del PCI riportato integralmente in Maria Luisa Righi (dir.), Il PCI e lo stalinismo. Un dibattito del 1961, Roma, Editori Riuniti, 2007, p. 264-265.
  23. FG, Apc, Mf 474, cit.
  24. Matthieu Renault, «Sous les yeux de l’Occident. Le perspectivisme postcolonial de Joseph Conrad», Quaderna, 2, 2012.
  25. Romano Ledda, «Nazionalismo africano e neocolonialismo combattono una lotta decisiva per il mondo», l’Unità, 10/12/1960.
  26. Alessandro Iandolo, «The rise and the fall of the ‘Soviet model of development’ in West Africa», cit.; cfr. André Lewin, Ahmed Sékou Touré (1922-1984) Président de la Guinée, v. 3, Paris, L’Harmattan, 2009.
  27. Ibid.
  28. FG, Apc, Mf. 520, p. 451-475, 1964.
  29. FG, Apc, Mf. 520, p. 1600-1627, 07/1964.
  30. FG, Apc, Mf 545, p. 2008-2016, 03-04/1967.
  31. Ibid.
  32. Bernard Charles, «Le rôle de la violence dans la mise en place des pouvoirs en Guinée», L’Afrique noire française, cit.; cfr. André Lewin, op. cit.; Rajen Harshe, «Guinea under Sékou Touré», Economic and Political Weekly, 15, 1984, p. 624-626.
  33. Alessandro Iandolo, «Imbalance of power: the Soviet Union and the Congo crisis, 1960-61», Journal of Cold War Studies, 16, 2014, p. 32-55; Elizabeth Schmidt, Foreign intervention in Africa, New York, Cambridge UP, 2013, p. 57-77.
  34. Romano Ledda, «Dove va l’Africa», Rinascita, 34-35, 27/08/1966.
  35. FG, Apc, Mf 520, cit.
  36. Romano Ledda, «Problemi della lotta politica e sociale nell’Africa nera», Critica Marxista, n. 2, 1967.
  37. Ibid.
  38. Ahmed Sékou Touré, «Non allineamento, coesistenza e lotta antimperialista», Critica Marxista, n. 6, 1964.
  39. Romano Ledda, «Problemi della lotta politica e sociale nell’Africa nera», cit.
  40. FG, Apc, Mf. 520, p. 1600-1627, 07/1964.
  41. XI Congresso del Partito comunista italiano. Atti e risoluzioni, Roma, Editori Riuniti, 1966, p. 614-615.
  42. FG, Apc, Mf 545, p. 2019-2027.
  43. Cfr. ivi, Mf 545, p. 2017, 2028, 2029-30; Mf 536, p. 2314; Mf 552, p. 1855; Mf 308, p. 1408.
  44. Ivi, Mf 546, p. 1795-1839, 23-26/04/1967.
  45. Ivi, Mf 552, p. 1862, 1856-1857, 1858-1859, 1864; 1969/cl/200.
  46. Sul PCI e la CEE, cfr. Michele Di Donato, I comunisti italiani e la sinistra europea, Roma, Carocci, 2015; sul PCI e gli accordi di Lomé tra CEE e Africa, cfr. Paolo Borruso, «Le nuove proiezioni verso l’Africa dell’Italia postcoloniale», Studi storici, 2, 2013; sul ruolo anti-USA degli accordi CEE-Africa per il PCI, cfr. FG, Apc, 1974/Cl/184.

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Auteur

Gabriele Siracusano est doctorant d’histoire à l’Université de Rome « Tor Vergata », en co-tutelle à l’Université Paris 1 - Panthéon-Sorbonne. Il travaille sur guerre froide en Afrique subsaharienne francophone selon les regards croisés des partis communistes italien et français. Il est aussi collaborateur de la Fondazione Gramsci de Rome où il s’occupe de classer une partie de l’archive du Parti communiste italien. Il a publié des articles dans les revues italiennes Studi Storici, Dimensioni e problemi della ricerca storica et Historia Magistra et il fait partie du comité de rédaction de cette dernière.

Gabriele Siracusano è dottorando di storia all’Università di Roma “Tor Vergata”, in cotutela con l’Université Paris 1 - Panthéon-Sorbonne. Si occupa di guerra fredda in Africa subsahariana francofona vista dal Partito comunista francese e dal Partito comunista italiano. Collabora con la Fondazione Gramsci di Roma, dove si occupa di schedare e inventariare una parte dell’archivio del Partito comunista italiano. Ha pubblicato degli articoli sulle riviste italiane Studi Storici, Dimensioni e problemi della ricerca storica e Historia Magistra e fa parte del Comitato di redazione di quest’ultima.

Pour citer cet article

Gabriele Siracusano, Progresso, guerra fredda e vie nazionali al socialismo in Africa, ©2018 Quaderna, mis en ligne le 23 décembre 2018, url permanente : https://quaderna.org/4/varia-4/progresso-guerra-fredda-e-vie-nazionali-al-socialismo-in-africa/

Progresso, guerra fredda e vie nazionali al socialismo in Africa
Gabriele Siracusano

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